Intervista al sottoscritto a cura di Dmitrij Palagi e Mattia Nestia
Tratta dalla rivista online “La Prospettiva”:
http://www.laprospettiva.eu/la-politica-deve-determinare-la-realta-intervista-a-romano/
1. Nel tuo ultimo saggio, pubblicato ora da Laterza (“La Fabbrica di Nichi. Comunità e politica nella postdemocrazia”), hai affrontato il "fenomeno Vendola", nato nel 2005 con la vittoria alle prime primarie pugliesi. Nel 2009 i difficili passaggi di Rifondazione e l'ostilità del Partito Democratico hanno contribuito alla nascita delle “Fabbriche di Nichi”: a quali esigenze rispondono queste realtà, come si sono sviluppate e come sono strutturate?Non sono certo dei semplici comitati elettorali (di Vendola). Costituiscono il tentativo di trasferire alla politica la logica organizzativa dell’impresa web 2.0. Quella fondata sul contributo di una moltitudine reticolare di produttori volontari di contenuti, il cui valore viene canalizzato integralmente verso il nodo centrale della rete. E’ il caso classico del “citizen journalism”: i giornalisti professionisti vengono sostituiti da semplici cittadini-reporter, ciascuno dei quali in piena gratuità e libertà, senza rispondere agli ordini del datore di lavoro, seguendo le proprie passioni ecc. confeziona notizie, commenti, contenuti e li trasmette al centro, al sito-blog-giornale online. L’ampolla ideologica che confeziona il tutto ci parla di autonomia dei produttori, democratizzazione dello sguardo, trasparenza informativa, partecipazione attiva dei redattori-lettori ecc. Il piccolo problema è che chi ha le chiavi dell’hub incassa tutto. L’enorme valore prodotto “a gratis” dalla moltitudine va diritto nelle tasche dei detentori del nodo centrale. La Fabbrica di Nichi funziona allo stesso modo. Il profitto, in questo caso, non è economico ma prevalentemente politico (il che – sia chiaro – ha anche un risvolto economico). Il collante specifico, in questo caso, è il carisma del leader, il cui mainstream narrativo viene rimasticato e rimegafonato all’infinito dai singoli nodi della rete (singoli operai e singole Fabbriche locali). In piena libertà, s’intende.
2. In un quadro più generale la forma partito e i sindacati paiono oggi in difficoltà, incapaci di conquistare la fiducia del "popolo della sinistra". Da Berlusconi a Grillo, passando per Vendola e Renzi, i movimenti di cambiamento ad oggi paiono indicare la via della personalizzazione. È possibile una strada diversa e come si dovrebbe modificare e innovare la classica "forma partito", senza che questa venga approssimativamente liquidata?
I problemi di forma non si risolvono ragionando di forma. Non si tratta di una questione di ingegneria organizzativa. La crisi della forma (-partito) ha origine nella sostanza. L’art. 49 della Costituzione ci dice che i partiti servono a “determinare la politica nazionale”. Il guaio è che la politica nazionale non determina la “realtà” nazionale. Perché uno dovrebbe entrare in un partito, accettarne la solidità, l’organizzazione, la gerarchia, la fatica dell’incontro e della discussione con gli altri se poi sa che questo non avrà alcun riflesso sulla sua vita? Il sistema nel quale ciascuno di noi galleggia ci appare non modificabile, men che mai dalla politica. In queste condizioni, le vie d’uscita a portata di mano sono due: 1) godere nell’immediato (è per questo che le forme liquide della politica hanno successo: il militante trae soddisfacimento dall’azione movimentista “qui e ora”, non più dal perseguimento di uno “scopo” collocato lontano nel tempo e d’incerta realizzazione); 2) affidarsi ad un Messia, il quale offre l’illusione di una reversione totale, di una palingenesi, la promessa di quel mutamento radicale delle cose che abbiamo sperimentato come non più possibile attraverso i canali “normali” della democrazia.
Come si fa, dunque, a resuscitare i partiti? La politica deve riappropriarsi della sovranità sul reale. Questo non sarà possibile finché prevarrà l’ideologia della governance: la politica ridotta a regolatrice dei traffici della società civile (un’idea condivisa dalla sinistra tutta, in ogni sua declinazione, dalla più moderata alla più estrema). La politica, invece, non deve più aprirsi allo spontaneismo del sociale (non deve più “ascoltare”, deve parlare, come dice Tronti). Deve distruggere la società, per ricostruirla ogni giorno a sgorgo della decisione collettiva. I partiti, in questo caso, diventerebbero solidissimi e, soprattutto, iperaffollati.
3. Ha parlato di spirito volontarista dietro le Fabbriche di Nichi e di assenza di interesse rispetto alla gestione del potere. Quest'ultimo tema è sparito dalle discussioni di linea politica all'interno della sinistra d'alternativa? Chi non accetta di gestire l'esistente non è carente rispetto a una proposta di sistema di governo?
Il potere è il vero tabù della sinistra post-novecentesca. Essa è tutta ripiegata sull’obiettivo dell’annichilimento del potere. La società ideale corrisponde al grado zero del Potere, ossia all’efflorescenza della “nuda vita”. Foucaultismo alle cozze negriane. Ma bisogna usare Foucault contro Foucault e avere il coraggio di dire che non c’è altro che il Potere. Il grado zero del Potere è il grado zero della realtà. Perciò se la sinistra decide di evacuare i luoghi del Potere, siccome la realtà va avanti lo stesso, altri poteri prenderanno il sopravvento. E ci fotteranno. Sperare nell’attivismo volontario è un autentico delitto perpetrato a danno dei deboli.
4. Una sinistra capace di dotarsi di un profilo di governo, pur mantenendo un orizzonte di trasformazione del sistema vigente, come dovrebbe rapportarsi con il territorio e con i cittadini, a partire dagli enti locali governati da amministrazioni di centrosinistra? E' possibile aprire, a partire da queste esperienze, nuovi spazi reali di democrazia e partecipazione?
Francamente ne ho abbastanza del “locale”. Il locale va abolito o per lo meno messo in mora per qualche anno. Disoccupiamoci per un po’ del vicinato. Se il potere vero si dispiega su scala globale, perché mai il contropotere dovrebbe rintanarsi a Canicattì? Per agevolargli il compito? E non mi si venga a dire che nel lungo periodo le esperienze locali virtuose si mettono i rete, si federano per sconfiggere i Leviatani senza più Stato. Com’è noto, nel lungo periodo saremo tutti morti. Dobbiamo tornare alla grande politica. Grande anche in senso meramente fisico: a grande scala.
5. Esiste un elemento generazionale nei fenomeni di cui abbiamo parlato? Quanto pesa nella società italiana oggi l'"eredità comunista" e quali elementi di quella storia e tradizione potrebbero e dovrebbero essere recuperati?
Del razzismo generazionale nella Fabbrica di Nichi ho accennato nel mio saggio. Non ha nulla a che fare con la lotta alla gerontocrazia. E’ un fenomeno che riviene a quanto detto sopra. La ricerca del godimento “qui e ora” (generata dall’immutabilità del sistema) porta necessariamente ad eliminare ogni elemento che fa scarto rispetto al presente. Per questo viene allestito uno spazio inospitale ai non giovani.
Dell’eredità comunista (italiana) ci siamo ampiamente sbarazzati, credo, purtroppo. Al di là di tutti i vizi noti, c’era il marchio sublime che da Gramsci porta a Pasolini (passando, perché no?, da Togliatti), che produceva un mescolamento con la carne viva del popolo, al di là di ogni geometria rivoluzionaria. Dove sarà finito?