venerdì 13 maggio 2011

Dov’è la libertà?

Il parallelo tra i sommovimenti nordafricani e l’implosione vent’anni or sono dei regimi socialisti esteuropei viene riproposto da mesi con fastidiosa insistenza. La libertà ne sarebbe il leit motiv. Il motore eterno delle rivolte. La favola così confezionata dilaga ovunque, trainata da prezzolati spacciatori di banalità, à la Ben Jelloun.
Ora come allora, il fantasma della libertà c’impedisce di capire alcunché. Non si tratta di un mero problema “analitico”, poiché la camicia di forza onni-libertaria ha riflessi politici pesanti e deleteri, soprattutto per le popolazioni che si rivoltano. Ora come allora – diciamola tutta –, i popoli non sono vittime dell’oppressione bensì, paradossalmente, della stessa libertà. Nel primo caso di quella che è stata declinata nella forma dello Stato liberatore, nel secondo della libertà di competere, globalmente sancita. Nella competizione globale, il Mediterraneo tutto (del Sud e del Nord) soccombe. Non riusciamo a trovare il nostro posto, noi mediterranei. Non sappiamo fare niente. Né innovare, né faticare a basso costo. Siamo schiacciati, strangolati. Per qualche tempo abbiamo vissuto a scrocco: a Sud saccheggiando le viscere della terra, a Nord trafugando un po’ ricchezza prodotta dall’Europa che conta. Ma ora i nodi stanno venendo al pettine. Il terreno produttivo che ci consente di partecipare ai bagordi della società dei consumi mostra tutta la sua inconsistenza e ci frana sotto i piedi.
Inneggiare alla libertà, in queste condizioni, è un autentico suicidio. Il dittatore di turno da abbattere non è che un capro espiatorio sul quale scaricare tutta la nostra rabbia. Questo è comprensibile: una faccia che materializzi il male serve sempre. Ma così restiamo sempre nella strategia dell’ubriaco, che si mette a cercare la banconota perduta sotto il lampione per la sola ragione che quella è l’unica porzione illuminata della strada. Reclamare ulteriore libertà significa darsi la zappa sui piedi: consegnare definitivamente se stessi e la propria terra a quella competizione internazionale che è la causa della nostra rabbia.
La beffa sta nel dono della libertà da parte dell’Occidente. E non perché, comme d’habitude, esso viene offerto sotto forma di bombe. Il veleno è altrove. Donando la libertà, l’Occidente vince doppiamente: primo, perché una volta democratizzato e liberalizzato un paese, i cittadini che da esso fuggono (strangolati dalla competizione internazionale) perdono il diritto a essere accolti e tutelati, diventando immediatamente clandestini da rispedire al mittente (“vivi un paese libero! Cosa vieni a rompere le balle qui?!”); secondo, perché diffondendo libertà preservano quella gerarchia di mercato che consente loro di restare in testa e di relegare per sempre in periferia il Mediterraneo. Così i cittadini che ivi risiedono possono diventare manodopera d’accatto per far funzionare le macchine produttive dei paesi che contano.
Dovremmo, dunque, smetterla di inneggiare alla libertà e lottare, invece, per una forma di protezione più spessa e più larga. Solo riparandosi dalla competizione internazionale che ne produce il soffocamento il Mediterraneo potrà ritrovare la sua autonomia e costruire una società a misura dei suoi spensierati residenti.

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