Ora come allora, il fantasma della libertà c’impedisce di capire alcunché. Non si tratta di un mero problema “analitico”, poiché la camicia di forza onni-libertaria ha riflessi politici pesanti e deleteri, soprattutto per le popolazioni che si rivoltano. Ora come allora – diciamola tutta –, i popoli non sono vittime dell’oppressione bensì, paradossalmente, della stessa libertà. Nel primo caso di quella che è stata declinata nella forma dello Stato liberatore, nel secondo della libertà di competere, globalmente sancita. Nella competizione globale, il Mediterraneo tutto (del Sud e del Nord) soccombe. Non riusciamo a trovare il nostro posto, noi mediterranei. Non sappiamo fare niente. Né innovare, né faticare a basso costo. Siamo schiacciati, strangolati. Per qualche tempo abbiamo vissuto a scrocco: a Sud saccheggiando le viscere della terra, a Nord trafugando un po’ ricchezza prodotta dall’Europa che conta. Ma ora i nodi stanno venendo al pettine. Il terreno produttivo che ci consente di partecipare ai bagordi della società dei consumi mostra tutta la sua inconsistenza e ci frana sotto i piedi.
Inneggiare alla libertà, in queste condizioni, è un autentico suicidio. Il dittatore di turno da abbattere non è che un capro espiatorio sul quale scaricare tutta la nostra rabbia. Questo è comprensibile: una faccia che materializzi il male serve sempre. Ma così restiamo sempre nella strategia dell’ubriaco, che si mette a cercare la banconota perduta sotto il lampione per la sola ragione che quella è l’unica porzione illuminata della strada. Reclamare ulteriore libertà significa darsi la zappa sui piedi: consegnare definitivamente se stessi e la propria terra a quella competizione internazionale che è la causa della nostra rabbia.
La beffa sta nel dono della libertà da parte dell’Occidente. E non perché, comme d’habitude, esso viene offerto sotto forma di bombe. Il veleno è altrove. Donando la libertà, l’Occidente vince doppiamente: primo, perché una volta democratizzato e liberalizzato un paese, i cittadini che da esso fuggono (strangolati dalla competizione internazionale) perdono il diritto a essere accolti e tutelati, diventando immediatamente clandestini da rispedire al mittente (“vivi un paese libero! Cosa vieni a rompere le balle qui?!”); secondo, perché diffondendo libertà preservano quella gerarchia di mercato che consente loro di restare in testa e di relegare per sempre in periferia il Mediterraneo. Così i cittadini che ivi risiedono possono diventare manodopera d’accatto per far funzionare le macchine produttive dei paesi che contano.
Dovremmo, dunque, smetterla di inneggiare alla libertà e lottare, invece, per una forma di protezione più spessa e più larga. Solo riparandosi dalla competizione internazionale che ne produce il soffocamento il Mediterraneo potrà ritrovare la sua autonomia e costruire una società a misura dei suoi spensierati residenti.
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