venerdì 24 giugno 2011

Se il partito è fuori forma

Intervista al sottoscritto a cura di Dmitrij Palagi e Mattia Nestia

Tratta dalla rivista online “La Prospettiva”:

http://www.laprospettiva.eu/la-politica-deve-determinare-la-realta-intervista-a-romano/

1. Nel tuo ultimo saggio, pubblicato ora da Laterza (“La Fabbrica di Nichi. Comunità e politica nella postdemocrazia”), hai affrontato il "fenomeno Vendola", nato nel 2005 con la vittoria alle prime primarie pugliesi. Nel 2009 i difficili passaggi di Rifondazione e l'ostilità del Partito Democratico hanno contribuito alla nascita delle “Fabbriche di Nichi”: a quali esigenze rispondono queste realtà, come si sono sviluppate e come sono strutturate?

Non sono certo dei semplici comitati elettorali (di Vendola). Costituiscono il tentativo di trasferire alla politica la logica organizzativa dell’impresa web 2.0. Quella fondata sul contributo di una moltitudine reticolare di produttori volontari di contenuti, il cui valore viene canalizzato integralmente verso il nodo centrale della rete. E’ il caso classico del “citizen journalism”: i giornalisti professionisti vengono sostituiti da semplici cittadini-reporter, ciascuno dei quali in piena gratuità e libertà, senza rispondere agli ordini del datore di lavoro, seguendo le proprie passioni ecc. confeziona notizie, commenti, contenuti e li trasmette al centro, al sito-blog-giornale online. L’ampolla ideologica che confeziona il tutto ci parla di autonomia dei produttori, democratizzazione dello sguardo, trasparenza informativa, partecipazione attiva dei redattori-lettori ecc. Il piccolo problema è che chi ha le chiavi dell’hub incassa tutto. L’enorme valore prodotto “a gratis” dalla moltitudine va diritto nelle tasche dei detentori del nodo centrale. La Fabbrica di Nichi funziona allo stesso modo. Il profitto, in questo caso, non è economico ma prevalentemente politico (il che – sia chiaro – ha anche un risvolto economico). Il collante specifico, in questo caso, è il carisma del leader, il cui mainstream narrativo viene rimasticato e rimegafonato all’infinito dai singoli nodi della rete (singoli operai e singole Fabbriche locali). In piena libertà, s’intende.

2. In un quadro più generale la forma partito e i sindacati paiono oggi in difficoltà, incapaci di conquistare la fiducia del "popolo della sinistra". Da Berlusconi a Grillo, passando per Vendola e Renzi, i movimenti di cambiamento ad oggi paiono indicare la via della personalizzazione. È possibile una strada diversa e come si dovrebbe modificare e innovare la classica "forma partito", senza che questa venga approssimativamente liquidata?


I problemi di forma non si risolvono ragionando di forma. Non si tratta di una questione di ingegneria organizzativa. La crisi della forma (-partito) ha origine nella sostanza. L’art. 49 della Costituzione ci dice che i partiti servono a “determinare la politica nazionale”. Il guaio è che la politica nazionale non determina la “realtà” nazionale. Perché uno dovrebbe entrare in un partito, accettarne la solidità, l’organizzazione, la gerarchia, la fatica dell’incontro e della discussione con gli altri se poi sa che questo non avrà alcun riflesso sulla sua vita? Il sistema nel quale ciascuno di noi galleggia ci appare non modificabile, men che mai dalla politica. In queste condizioni, le vie d’uscita a portata di mano sono due: 1) godere nell’immediato (è per questo che le forme liquide della politica hanno successo: il militante trae soddisfacimento dall’azione movimentista “qui e ora”, non più dal perseguimento di uno “scopo” collocato lontano nel tempo e d’incerta realizzazione); 2) affidarsi ad un Messia, il quale offre l’illusione di una reversione totale, di una palingenesi, la promessa di quel mutamento radicale delle cose che abbiamo sperimentato come non più possibile attraverso i canali “normali” della democrazia.

Come si fa, dunque, a resuscitare i partiti? La politica deve riappropriarsi della sovranità sul reale. Questo non sarà possibile finché prevarrà l’ideologia della governance: la politica ridotta a regolatrice dei traffici della società civile (un’idea condivisa dalla sinistra tutta, in ogni sua declinazione, dalla più moderata alla più estrema). La politica, invece, non deve più aprirsi allo spontaneismo del sociale (non deve più “ascoltare”, deve parlare, come dice Tronti). Deve distruggere la società, per ricostruirla ogni giorno a sgorgo della decisione collettiva. I partiti, in questo caso, diventerebbero solidissimi e, soprattutto, iperaffollati.


3. Ha parlato di spirito volontarista dietro le Fabbriche di Nichi e di assenza di interesse rispetto alla gestione del potere. Quest'ultimo tema è sparito dalle discussioni di linea politica all'interno della sinistra d'alternativa? Chi non accetta di gestire l'esistente non è carente rispetto a una proposta di sistema di governo?

Il potere è il vero tabù della sinistra post-novecentesca. Essa è tutta ripiegata sull’obiettivo dell’annichilimento del potere. La società ideale corrisponde al grado zero del Potere, ossia all’efflorescenza della “nuda vita”. Foucaultismo alle cozze negriane. Ma bisogna usare Foucault contro Foucault e avere il coraggio di dire che non c’è altro che il Potere. Il grado zero del Potere è il grado zero della realtà. Perciò se la sinistra decide di evacuare i luoghi del Potere, siccome la realtà va avanti lo stesso, altri poteri prenderanno il sopravvento. E ci fotteranno. Sperare nell’attivismo volontario è un autentico delitto perpetrato a danno dei deboli.


4. Una sinistra capace di dotarsi di un profilo di governo, pur mantenendo un orizzonte di trasformazione del sistema vigente, come dovrebbe rapportarsi con il territorio e con i cittadini, a partire dagli enti locali governati da amministrazioni di centrosinistra? E' possibile aprire, a partire da queste esperienze, nuovi spazi reali di democrazia e partecipazione?

Francamente ne ho abbastanza del “locale”. Il locale va abolito o per lo meno messo in mora per qualche anno. Disoccupiamoci per un po’ del vicinato. Se il potere vero si dispiega su scala globale, perché mai il contropotere dovrebbe rintanarsi a Canicattì? Per agevolargli il compito? E non mi si venga a dire che nel lungo periodo le esperienze locali virtuose si mettono i rete, si federano per sconfiggere i Leviatani senza più Stato. Com’è noto, nel lungo periodo saremo tutti morti. Dobbiamo tornare alla grande politica. Grande anche in senso meramente fisico: a grande scala.


5. Esiste un elemento generazionale nei fenomeni di cui abbiamo parlato? Quanto pesa nella società italiana oggi l'"eredità comunista" e quali elementi di quella storia e tradizione potrebbero e dovrebbero essere recuperati?

Del razzismo generazionale nella Fabbrica di Nichi ho accennato nel mio saggio. Non ha nulla a che fare con la lotta alla gerontocrazia. E’ un fenomeno che riviene a quanto detto sopra. La ricerca del godimento “qui e ora” (generata dall’immutabilità del sistema) porta necessariamente ad eliminare ogni elemento che fa scarto rispetto al presente. Per questo viene allestito uno spazio inospitale ai non giovani.

Dell’eredità comunista (italiana) ci siamo ampiamente sbarazzati, credo, purtroppo. Al di là di tutti i vizi noti, c’era il marchio sublime che da Gramsci porta a Pasolini (passando, perché no?, da Togliatti), che produceva un mescolamento con la carne viva del popolo, al di là di ogni geometria rivoluzionaria. Dove sarà finito?



mercoledì 8 giugno 2011

Garantisce Nekrošius

Gli effetti perversi della legittimazione carismatica.

Riepiloghiamo. Il Teatro Pubblico Pugliese lancia un avviso pubblico per la partecipazione ad un workshop con il grande regista lituano Eimuntas Nekrošius. I posti disponibili sono trenta. Coloro che supereranno una prima selezione sulla base dei curricula accederanno ad un’audizione con il maestro. Dopodiché, questi sceglierà i partecipanti “a suo insindacabile giudizio”. Insomma, al di là delle procedure specificate e a parte un requisito minimo di accesso (essere attori o registi professionisti pugliesi), non vi sono espliciti criteri di selezione. Nekrošius è Nekrošius, quindi decide come gli pare. La fonte di legittimazione della sua autorità è di carattere spiccatamente carismatico. L’autorevolezza “soggettiva” e la buona fede del maestro sono fuori discussione, quindi non c’è bisogno di fissare ex ante criteri “oggettivi”. Garantisce lui. In campo artistico, è normale che sia così. Nessuno scandalo.

A fine aprile, com’è noto, il TPP ha pubblicato la lista dei trenta nomi prescelti senza che però vi fosse stata alcuna audizione, mandando su tutte le furie gli esclusi. Il Presidente, Carmelo Grassi, ha motivato i mancati provini con il numero troppo elevato (circa trecento) di curricula pervenuti. Un argomento che, all’evidenza, fa acqua da tutte le parti. Il numero di candidati da ammettere alle audizioni, infatti, non era specificato. Il maestro avrebbe potuto deciderlo a priori e a prescindere dal numero di domande. La consistenza del suo impegno nelle audizioni era del tutto indipendente dallo spessore del pacco dei curricula. Insomma, una panzana.

E’ facile immaginare che Nekrošius, essendo Nekrošius, fosse troppo impegnato per perdere qualche giorno a Bari a sorbirsi le performance degli attori pugliesi e che a suo tempo abbia fatto una promessa, diciamo così, un po’ frettolosa.

La vicenda mette in evidenza alcuni aspetti controversi del potere carismatico. Certo, come sosteneva Max Weber, esso ha la proprietà di dare un respiro di senso alla comunità, distogliendola dagli affari quotidiani, dal suo ripiegamento sulle trame competitive degli interessi egoistici. E’ suadente e ha grande forza espansiva poiché fluidifica e dona pathos all’azione sociale. Ma queste virtù hanno almeno due effetti collaterali. Innanzi tutto, grazie al potere carismatico viene allentata l’attenzione sulle regole che sovrintendono agli affari quotidiani dei comuni mortali. Al pari del “giudizio”, anche il comportamento del leader diventa “insindacabile”. Nella fattispecie, siamo di fronte ad una chiara inadempienza da parte del maestro, ma il problema è che Nekrošius, in quanto Nekrošius, quasi certamente non ha formalizzato da nessuna parte il suo impegno a rispettare i termini del bando. La sua autorevolezza lo esime da queste quisquiglie. Al massimo, ne risponderà chi ha confezionato l’avviso pubblico, ma lui è al di sopra di tutto.

Questa incostanza produce il secondo inconveniente. Dal momento che il leader ha la testa tra le nuvole e mal sopporta la miseria del quotidiano (ve lo immaginate Nekrosius, in persona, a esaminare trecento curricula con annesse lettere di presentazione?), egli delega volentieri le incombenze burocratiche a una nebulosa di sottoposti, invisibili e senza nome. All’ombra del soggetto eletto si forma immancabilmente una zona grigia che beneficia abusivamente dei medesimi crediti riconosciuti al capo. La fonte “soggettiva” di legittimazione di fatto scompare, ma l’allentamento della vigilanza sulle regole che essa consente continua a vigere. A quel punto, ogni abuso è possibile e ricorrervi contro diventa arduo. Non è un caso che gli esclusi dalla selezione non abbiano trovato di meglio che appellarsi ad un altro detentore di carisma (chiodo scaccia chiodo). Ossia il presidente della Regione, il quale, per scrollarsi di dosso le miserie del quotidiano, ha minacciato querele (sic!).

sabato 4 giugno 2011

Nord e Sud dopo il voto

Il solco tra Nord e Sud esce approfondito da questa tornata elettorale.

L’euforia per l’odore di svolta esalato da Napoli a Milano è sacrosanta, ma occorre evitare di restarne invischiati. E’ una precauzione necessaria dopo quello che è accaduto all’indomani di Tangentopoli. Pensavamo che tolti di mezzo democrastiani e socialisti fosse arrivato finalmente il turno della buona sinistra e invece è spuntato Berlusconi e ha fatto man bassa. Lasciando alla sinistra solo le briciole, ossia il fuoco fatuo dei “nuovi sindaci”.

Il Nord ha da sempre il problema di assicurarsi la sponda politica che meglio risponde all’esigenza di mantenere salda la sua integrazione produttiva, finanziaria, sociale al centro della civiltà, alle aree più dinamiche del globo. Questo obiettivo non è mai stato semplice da raggiungere e costituisce in sé una promessa di secessione: il Sud può essere preso in considerazione solo nella misura in cui diventa funzionale al progetto d’integrazione del Nord. Così è stato nella prima Repubblica. Gli abitanti del triangolo industriale stavano a maggioranza col PCI: un effetto collaterale dello sviluppo. Per questo è stato necessario alla grande impresa settentrionale foraggiare il Mezzogiorno, ingaggiando per il servizio – a caro prezzo – DC e compagnia. Così con una sola fava sono stati beccati due piccioni: i voti per controbilanciare l’egemonia comunista e la forza lavoro per far funzionare le fabbriche settentrionali. Nella seconda Repubblica, sparita la minaccia comunista, fiaccata la grande impresa e sfasciate le casse pubbliche, il Nord si è trovato costretto a cambiare alleato. Una forza politica che si presenti come mera cinghia di trasmissione della modernizzazione, come produttrice di politiche razionali e utili alle necessità dell’organizzazione socio-economica non fa proseliti. E’ stato necessario anche in questo caso rivolgersi ad ancelle indomabili, in grado però di regalare un sogno oltre-funzionale agli elettori. Un nuovo patto con nuovi diavoli: l’iperconsumismo berlusconiamo e l’ipercomunitarismo leghista. E’ così che il Nord ha cominciato a far finta di lamentarsi dell’assistenzialismo meridionale, che esso stesso, a suo prioritario vantaggio, aveva alimentato per decenni, facendo agio sulla nuova struttura produttiva molecolare che andava sostituendosi a quella “molare” conosciuta nei trent’anni gloriosi.

Le nuove reclute ci hanno provato ma, al di là della cattura del popolo, proprio non ce la fanno a governare. La loro inettitudine è conclamata, imbarazzante. Niente a che vedere con le macchine da guerra democristiane e socialiste. Insomma, c’è bisogno di nuovi alleati. Nelle grandi città lo si capisce prima che nelle campagne (non si sottolineerà mai abbastanza la caratterizzazione fortemente “urbana” di questo voto): la buona borghesia internazionalizzata è più presente e meno bisognosa dei cascinari della Lega da sguinzagliare presso il ceto medio impaurito. Occorre un soggetto politico nuovo che realizzi la secessione vera. La bambagia assicurata un tempo dallo Stato non basta più. La competizione internazionale si fa sempre più esigente e non ammette palle al piede. La sinistra appare in questo frangente transitorio più affidabile, più adatta allo scopo. Prima di tutto, la sinistra della modernizzazione hard à la Chiamparino-Fassino: perfetta, ma eleggibile solo nella Torino azionista, austera e perfettina. Oppure quella a marchio Report, ecologica, fotovoltaica, ciclabile e riciclabile. A’ la finlandese. Ossia Pisapia. Entrambe queste sinistre sono perfettamente funzionali al progetto di integrazione modernizzatrice e promettono ben più seriamente di Lega e Pdl di liberarsi della zavorra del Sud (liberarsene di fatto, senza che ci sia bisogno di deliberarlo). E’ ovvio che si tratta di una soluzione tampone, della quale il Nord che conta non può fidarsi fino in fondo (poiché il prezzo da pagare in termini di giustizia sociale, correttezza degli affari, valori universalistici ecc. potrebbe essere insostenibile), in attesa che si consolidi a destra una nuova proposta. Magari, un liberalismo montezemolo e puttanone, che dia appeal all’impresa modernizzatrice, tutto merito, tecnologia ed expo.

Più decisa sarà la guida verso le eccellenze della competizione internazionale, più il Mezzogiorno si perderà nel suo buco nero. Le forme di acquisività politica e la costellazione di stratagemmi orbitali per la captazione dell’extra-profitto sono sempre più inefficienti nell’assicurare al Sud gli attuali livelli di consumo. La marginalità vera è in sempre più in agguato. Alti livelli di istruzione, elevati standard di consumo, perfetta integrazione nella cultura di massa occidentale da un lato e, sul piano struttural-produttivo, nient’altro che esclusione: questo è un potenziale di frustrazione esplosivo, la cui miccia è già accesa. Nel vuoto dell’economico, sulla politica si scaricheranno tutte le velleità di presenza al mondo dei meridionali. La politica diventerà un grande teatro di follia, di creatività a perdere, di corruzione e di consolazione. Piccolo cabotaggio criminale e grandi slanci da parvenu della civiltà saranno le due facce di un’unica disperazione. Conviveranno raccolte differenziate al 90% e mazzette a fiumi. Napoli ne è il paradigma. Vendola, in questo contesto, avrebbe potuto essere il leader della rabbia meridionale e invece ha scelto di fare l’americano, di intraprendere la strada dell’allucinazione consolatoria. Quello che ci attende è la moltiplicazione dei De Magistris.