sabato 25 febbraio 2012

Emma, Erica, Dolcenera. Il futuro della politica visto da Sanremo (e dalla Puglia)

da La Gazzetta del Mezzogiorno, 25/02/2012

Non c’è verso: la destra continua ad essere un passo in avanti rispetto alla sinistra. E, soprattutto, a porsi al diapason con le corde più profonde del popolo. Non parliamo di rappresentanze politiche (sempre più incartate e lente) ma di quel germinaio antropologico e sottoculturale che costituisce l’humus indispensabile di ogni successiva egemonia. L’Italia di Colpo Grosso marca il passo. La comunità orgiastica, dissipativa, grigliata alla lampada abbronzante che il Cavaliere ha magistralmente incarnato sembra volare via insieme alla farfallina di Belen, la cui insopprimibile intelligenza pesa come un macigno sulla sua credibilità di soubrette smutandata.

Come spesso accade, è Sanremo il palcoscenico del passaggio d’epoca e sono le voci di Puglia a fare da cartina di tornasole della mutazione. La voce di Emma, innanzi tutto.
Frutto del ventre mistico di Maria (intesa come De Filippi), puledro di razza della scuderia Mediaset, figlia dell’orgia, insomma, Emma Marrone volta le spalle allo sbraco del ventennio berlusconiano e si mette a urlare la durezza del reale, anelando in lacrime “un poco di mangiare”, come a riannodare il filo con i lamenti di un Matteo Salvatore. C’è qualcosa di più di una furbesca cavalcata sull’onda della crisi. Emma detta la linea: stare dentro la ferita della disperazione esistenziale, entrare in empatia con i dannati della precarietà, ribadendo però (e sta qui il trucco) la fedeltà all’assetto valoriale fondativo della destra: Dio, Patria e Famiglia. Di più, attestandone la “naturalità” (“la natura di diventare padre”). Dopo la parentesi tecnica, sarà questo il leitmotiv che consentirà alla destra di catalizzare lo spirito del tempo, di raccogliere il disagio generato dal capitalismo tecno-finanziario e, al contempo, di anestetizzarne il potenziale conflittuale e trasformativo.

Come risponde la sinistra ai tumulti dei tempi? Con Erica Mou. La cantautrice biscegliese si è auto-rappresentata orgogliosamente sul palco dell’Ariston come frutto genuino della Puglia migliore, quella che investe in creatività. La sua canzone è il paradigma del vitalismo tardo-piccolo-borghese. L’ansia di mordere la vita, di godere della beatitudine che la vita in sé, nella sua immanente auto-sufficienza può regalare, stando sempre nell’attimo e disoccupandosi di tutto il resto. Un inno alla libertà individuale. Ci mostra, la Mou, che la “buona politica” è attardata nella competizione con il vecchio stile di vita berlusconiano. Al godimento cafone e mercenario, essa oppone un’idea di benessere gentile, consapevole, ecocompatibile, sganciato da qualsiasi performatività sociale (“voglio diventare vecchia … con le rughe tatuate”). Il popolo? Non pervenuto. Il disagio sociale? Chi l’ha visto? La vena trasformativa della sinistra si scarica completamente nello spazio liscio dei respiri libertari. E’ lì che essa esercita il suo stantio anticonformismo: si pensi pure all’altro pugliese Carone (con Dalla a mo’ di pistone), il quale canta, in un malriuscito tentativo d’imitazione di Faber, lo scandalo del cliente che si innamora della prostituta. Il destro le prostitute le compra, il sinistro se ne innamora. Quanto è umano!

Ma tra la Puglia peggiore di Emma e la Puglia migliore di Erica, ad accendere un lumicino di speranza interviene la Puglia-Puglia di Dolcenera. Una prova ambiziosa, la sua. Qui la critica al presente non passa dal semplice lamento per il morso della crisi, ma da una rimessa in discussione dell’intero “paradigma delle libertà”, su cui ha prosperato l’egemonia berlusconiana. Dolcenera afferma chiaro e tondo che il mondo liquido, sfavillante di mille opportunità, “non fa respirare”; che alle “cattedrali” del consumo è preferibile un monolocale in cui coltivare la solidità dell’amore (“qualunque cosa accada”). Sta in questo solco la rivoluzione di sistema, il cambio di paradigma. Che prende due piccioni con una fava: la crisi e il modello di società di cui essa è figlia. La sinistra potrebbe essere l’interprete di questa stagione. Molti dei suoi intellettuali vanno dicendo da anni le cose che canta Dolcenera, ma la politica è ancora attardata nell’impresa di espansione delle libertà molecolari, che di quel sistema entrato in crisi sono il primo alimento. Dolcenera ci indica la strada: la ricerca di una trascendenza che parta dalle falle del vitalismo immanente può essere l’alternativa vera al “Dio, Patria e Famiglia”. Peccato che i politici che non guardino Sanremo.



martedì 31 gennaio 2012

Perché il PD non espelle Emiliano?

Articolo 2, comma 9, dello Statuto del Partito Democratico: “sono escluse dalla registrazione nell’Anagrafe degli iscritti e nell’Albo degli elettori del PD le persone appartenenti ad altri movimenti politici o iscritte ad altri partiti politici […]”.
 Ci chiediamo come mai a Michele Emiliano non si applichino le regole del partito. Egli non ha semplicemente aderito ad un altro movimento politico ma lo ha persino fondato e griffato col suo nome. Il segretario Blasi sostiene che, sì, forse un problema di violazione dello Statuto ci sarebbe, ma solo nel caso in cui il Sindaco desse davvero seguito all’intenzione di costituire una lista nazionale. Ma questo criterio spaziale è una pura invenzione, di cui non v’è traccia alcuna nello Statuto. Chi sostiene un altro movimento che, indipendentemente dalla sua rilevanza territoriale, compete elettoralmente col PD è fuori dal partito. Punto e basta. Di più, l’opinione di Blasi, di Bersani e di tutti gli organismi dirigenti è, sul punto, del tutto irrilevante. Solo la Commissione di Garanzia territorialmente competente “in tali condizioni, dopo una breve verifica, comprensiva, nel caso, dell’audizione dell’interessato/a, provvede alla cancellazione dall’Anagrafe degli iscritti o dall’Albo degli elettori entro il termine di 15 giorni”. E ancora: “Nelle more del procedimento, per casi di particolare rilevanza, la Commissione può adottare un provvedimento di sospensione cautelare dall’attività di partito con efficacia immediata” (art. 11, comma 1, del Regolamento per le Commissioni di Garanzia del PD).
Dal momento che la cosa riguarda il Presidente regionale del partito, non v’è dubbio che si tratti di un caso di “particolare rilevanza”. E’ possibile che i membri della locale Commissione di Garanzia non siano venuti a conoscenza del fatto? E’ possibile che nessun iscritto al PD pretenda l’applicazione delle regole che il collettivo si è dato?

 Il nostro non è mero accanimento notarile. La questione ha uno straordinario valore simbolico. Se Emiliano la passa liscia anche stavolta significa che alla personalità carismatica viene data licenza di alterare le regole democratiche, di porsi al di sopra della legge. L’autorevolezza del partito, già appannata di suo, ne uscirebbe irrimediabilmente compromessa. Tutti i partiti, intesi soprattutto come organizzazioni collettive, sono oggi sotto ricatto. Ci si persuade unanimemente che senza personalità carismatiche, come quelle di Emiliano o Vendola, si è elettoralmente spacciati. Per questo si indulge ad ogni capriccio della star di turno. Ora, noi sappiamo benissimo che ciò che è “giusto” non sempre corrisponde a ciò che è “opportuno”. Se l’obiettivo è vincere le elezioni, si può anche soprassedere sul rispetto delle regole interne. Non ci scandalizziamo certo per questo. Tutti continuano a ripetere che, nonostante le ricorrenti intemperanze, Emiliano è una risorsa insostituibile per il centro-sinistra e ha governato bene la città. E’ forse giunto il momento di cominciare a mettere in discussione simili assunti.
Le personalità carismatiche possono essere utili in determinate contingenze, ma se poi queste rifiutano di innestarsi dentro un percorso collettivo e democratico, il rischio è che diventino dannose, anche sotto un profilo cinicamente elettorale. Tutti dimenticano che sia Emiliano sia Vendola, in occasione delle loro rispettive riconferme, hanno perso valanghe di voti, pur competendo entrambi con personaggi collocati al grado zero del carisma (Di Cagno Abbrescia e Palese). Le divisioni nel campo avverso sono state ben più decisive dei loro meriti.
Questo è avvenuto principalmente perché entrambi, invece di mettere a valore le loro capacità di leadership al fine di saldare alleanze con le categorie sociali e per costruire soggetti collettivi forti e organizzati, hanno fatto di tutto per sfasciare anche quelli già esistenti. Sull’argomento del “buon governo”, poi, vi sarebbe da discutere e tanto. Ma non è certo questa la sede. Il punto vero è che la situazione di profonda crisi strutturale in cui versa il Mezzogiorno rende obsoleto il modello politico incarnato, ormai già da vent’anni, dai nuovi sindaci.

Non abbiamo più bisogno di mettere a lucido le città, ma di ricostruire l’assetto economico-sociale complessivo. Per questo compito, non servono più né gli uomini soli al comando, né la cittadinanza liquida. Occorrono visioni lunghe e organizzazioni politiche solide. Insomma, è l’ora di uscire davvero dal berlusconismo.