“L’idea di welfare sulla quale sta lavorando da anni il governo pugliese è centrata sulla auto valorizzazione della risorsa umana. Le persone, nel momento in cui acquisiscono gli strumenti per darsi valore, sono risorse”.
Così Nichi Vendola in occasione del recente varo del piano regionale per le famiglie. In questa frase c’è tutta la mutazione genetica della sinistra. L’autocertificazione del suo compiuto approdo all’ideologia della precarizzazione mobilitante, dello “starve the beast” (“affama la bestia”, di reaganiana memoria). Lavorare affinché la persona si auto-riduca allo stato di “risorsa”, metta a valore se stessa per meglio lanciarsi sul mercato (e spaccarsi le ossa) è la perfetta realizzazione del diktat biopolitico neoliberale. Anche se nessun vero liberale ostenterebbe mai una tale spudorata nettezza nell’assimilare la persona alla risorsa. Ovviamente, la nuova politica viene posta in contrapposizione al vecchio welfare, presentato immancabilmente come un verminaio di assistenzialismo e passivizzazione delle masse.
Ma proviamo a considerare l’intento vendoliano al di là di ogni afflato valutativo. Proviamo a prendere sul serio l’obiettivo dichiarato di rendere le persone delle “risorse umane” di buona qualità, valide e forti. Che cosa occorrerebbe per realizzare concretamente un simile obiettivo? Occorrerebbe un sistema d’istruzione eccellente, una sanità pubblica efficace ed efficiente, un apparato di tutele e di servizi per i lavoratori articolato ed esteso, un mercato occupazionale forte e foderato con spesse garanzie ecc. Occorrerebbe – se fosse davvero quello l’obiettivo – né più né meno che il buon vecchio welfare. E invece l’accento cade insistentemente sulla “auto” valorizzazione della risorsa umana. Perché mai questa sottolineatura? Poiché solo in questo modo si sancisce un preventivo disimpegno da parte del pubblico potere. Si stabilisce il principio che il cittadino deve cavarsela da sé e che nulla gli è dovuto. Tutto quello che arriva è un di più. Solo così la responsabilità del fallimento del singolo può essere attribuita in via esclusiva alla persona stessa, al suo personale deficit di mobilitazione. Solo così la “giusta” misura della spinta pubblica può rimanere indefinita e attestarsi anche, all’occorrenza, su livelli impercettibili: la responsabilità sarà sempre del singolo.
Ma le affermazioni di Vendola non vanno mai prese sul serio. Essendo un politico ormai stabilmente collocato nel paradigma postmoderno, egli è del tutto indifferente ai contenuti delle sue proprie affermazioni. Queste sono orientate esclusivamente dal loro impatto estetico-emozionale e da contingenze di carattere puramente strumentale. Nella fattispecie, Vendola si trova a confezionare con una narrazione glamour un impianto di welfare deciso da altre forze. E’ questo il vero problema. La vicenda mette in luce, innanzi tutto, l’assenza di luoghi nei quali discutere del senso delle politiche elaborate a livello regionale: come e dove è possibile dire a Vendola che l’idea di welfare che sta portando avanti costituisce la pietra tombale per la cultura politica di sinistra?
In secondo luogo, essa rivela che il welfare regionale (e non solo quello) è tutto nelle mani di una ben riconoscibile couche di burocrati e di consulenti di matrice cattolica che impongono la loro linea in assenza di qualsiasi argine di carattere politico. Cultura neo-liberale e cultura cattolica, in tema di welfare, condividono infatti un comune odio per lo Stato, nonché l’idea di autoregolazione della società civile. Ma chi non gode della tutela divina, come fa a difendersi in questa società?
Insomma, il problema è sempre quello: il deliberato smantellamento dei corpi intermedi operato da Vendola in questi anni produce l’evaporazione di ogni orizzonte di trasformazione, di ogni alternativa di società e ci pone di balia di cricche invisibili e incontrollabili.