mercoledì 25 maggio 2011

L’idea di welfare regionale è l’harakiri della sinistra

“L’idea di welfare sulla quale sta lavorando da anni il governo pugliese è centrata sulla auto valorizzazione della risorsa umana. Le persone, nel momento in cui acquisiscono gli strumenti per darsi valore, sono risorse”.

Così Nichi Vendola in occasione del recente varo del piano regionale per le famiglie. In questa frase c’è tutta la mutazione genetica della sinistra. L’autocertificazione del suo compiuto approdo all’ideologia della precarizzazione mobilitante, dello “starve the beast” (“affama la bestia”, di reaganiana memoria). Lavorare affinché la persona si auto-riduca allo stato di “risorsa”, metta a valore se stessa per meglio lanciarsi sul mercato (e spaccarsi le ossa) è la perfetta realizzazione del diktat biopolitico neoliberale. Anche se nessun vero liberale ostenterebbe mai una tale spudorata nettezza nell’assimilare la persona alla risorsa. Ovviamente, la nuova politica viene posta in contrapposizione al vecchio welfare, presentato immancabilmente come un verminaio di assistenzialismo e passivizzazione delle masse.

Ma proviamo a considerare l’intento vendoliano al di là di ogni afflato valutativo. Proviamo a prendere sul serio l’obiettivo dichiarato di rendere le persone delle “risorse umane” di buona qualità, valide e forti. Che cosa occorrerebbe per realizzare concretamente un simile obiettivo? Occorrerebbe un sistema d’istruzione eccellente, una sanità pubblica efficace ed efficiente, un apparato di tutele e di servizi per i lavoratori articolato ed esteso, un mercato occupazionale forte e foderato con spesse garanzie ecc. Occorrerebbe – se fosse davvero quello l’obiettivo – né più né meno che il buon vecchio welfare. E invece l’accento cade insistentemente sulla “auto” valorizzazione della risorsa umana. Perché mai questa sottolineatura? Poiché solo in questo modo si sancisce un preventivo disimpegno da parte del pubblico potere. Si stabilisce il principio che il cittadino deve cavarsela da sé e che nulla gli è dovuto. Tutto quello che arriva è un di più. Solo così la responsabilità del fallimento del singolo può essere attribuita in via esclusiva alla persona stessa, al suo personale deficit di mobilitazione. Solo così la “giusta” misura della spinta pubblica può rimanere indefinita e attestarsi anche, all’occorrenza, su livelli impercettibili: la responsabilità sarà sempre del singolo.

Ma le affermazioni di Vendola non vanno mai prese sul serio. Essendo un politico ormai stabilmente collocato nel paradigma postmoderno, egli è del tutto indifferente ai contenuti delle sue proprie affermazioni. Queste sono orientate esclusivamente dal loro impatto estetico-emozionale e da contingenze di carattere puramente strumentale. Nella fattispecie, Vendola si trova a confezionare con una narrazione glamour un impianto di welfare deciso da altre forze. E’ questo il vero problema. La vicenda mette in luce, innanzi tutto, l’assenza di luoghi nei quali discutere del senso delle politiche elaborate a livello regionale: come e dove è possibile dire a Vendola che l’idea di welfare che sta portando avanti costituisce la pietra tombale per la cultura politica di sinistra?

In secondo luogo, essa rivela che il welfare regionale (e non solo quello) è tutto nelle mani di una ben riconoscibile couche di burocrati e di consulenti di matrice cattolica che impongono la loro linea in assenza di qualsiasi argine di carattere politico. Cultura neo-liberale e cultura cattolica, in tema di welfare, condividono infatti un comune odio per lo Stato, nonché l’idea di autoregolazione della società civile. Ma chi non gode della tutela divina, come fa a difendersi in questa società?

Insomma, il problema è sempre quello: il deliberato smantellamento dei corpi intermedi operato da Vendola in questi anni produce l’evaporazione di ogni orizzonte di trasformazione, di ogni alternativa di società e ci pone di balia di cricche invisibili e incontrollabili.



venerdì 13 maggio 2011

Dov’è la libertà?

Il parallelo tra i sommovimenti nordafricani e l’implosione vent’anni or sono dei regimi socialisti esteuropei viene riproposto da mesi con fastidiosa insistenza. La libertà ne sarebbe il leit motiv. Il motore eterno delle rivolte. La favola così confezionata dilaga ovunque, trainata da prezzolati spacciatori di banalità, à la Ben Jelloun.
Ora come allora, il fantasma della libertà c’impedisce di capire alcunché. Non si tratta di un mero problema “analitico”, poiché la camicia di forza onni-libertaria ha riflessi politici pesanti e deleteri, soprattutto per le popolazioni che si rivoltano. Ora come allora – diciamola tutta –, i popoli non sono vittime dell’oppressione bensì, paradossalmente, della stessa libertà. Nel primo caso di quella che è stata declinata nella forma dello Stato liberatore, nel secondo della libertà di competere, globalmente sancita. Nella competizione globale, il Mediterraneo tutto (del Sud e del Nord) soccombe. Non riusciamo a trovare il nostro posto, noi mediterranei. Non sappiamo fare niente. Né innovare, né faticare a basso costo. Siamo schiacciati, strangolati. Per qualche tempo abbiamo vissuto a scrocco: a Sud saccheggiando le viscere della terra, a Nord trafugando un po’ ricchezza prodotta dall’Europa che conta. Ma ora i nodi stanno venendo al pettine. Il terreno produttivo che ci consente di partecipare ai bagordi della società dei consumi mostra tutta la sua inconsistenza e ci frana sotto i piedi.
Inneggiare alla libertà, in queste condizioni, è un autentico suicidio. Il dittatore di turno da abbattere non è che un capro espiatorio sul quale scaricare tutta la nostra rabbia. Questo è comprensibile: una faccia che materializzi il male serve sempre. Ma così restiamo sempre nella strategia dell’ubriaco, che si mette a cercare la banconota perduta sotto il lampione per la sola ragione che quella è l’unica porzione illuminata della strada. Reclamare ulteriore libertà significa darsi la zappa sui piedi: consegnare definitivamente se stessi e la propria terra a quella competizione internazionale che è la causa della nostra rabbia.
La beffa sta nel dono della libertà da parte dell’Occidente. E non perché, comme d’habitude, esso viene offerto sotto forma di bombe. Il veleno è altrove. Donando la libertà, l’Occidente vince doppiamente: primo, perché una volta democratizzato e liberalizzato un paese, i cittadini che da esso fuggono (strangolati dalla competizione internazionale) perdono il diritto a essere accolti e tutelati, diventando immediatamente clandestini da rispedire al mittente (“vivi un paese libero! Cosa vieni a rompere le balle qui?!”); secondo, perché diffondendo libertà preservano quella gerarchia di mercato che consente loro di restare in testa e di relegare per sempre in periferia il Mediterraneo. Così i cittadini che ivi risiedono possono diventare manodopera d’accatto per far funzionare le macchine produttive dei paesi che contano.
Dovremmo, dunque, smetterla di inneggiare alla libertà e lottare, invece, per una forma di protezione più spessa e più larga. Solo riparandosi dalla competizione internazionale che ne produce il soffocamento il Mediterraneo potrà ritrovare la sua autonomia e costruire una società a misura dei suoi spensierati residenti.

lunedì 9 maggio 2011

Una stella per nascondere il nulla

Aldebaran è un altro sole. Centinaia di volte più luminoso del nostro. Ma non bisogna equivocare: la ricerca di una sempre più splendente “luce del civile” non ci appartiene. Già il nome della stella, del resto, s’ispira a luoghi poco inclini agli ordini celesti. In più, il nostro sole non è buono per illuminare le cose, per meglio inquadrarle, a contrario ci abbaglia, ci porta a boccheggiare fino all’afasia. All’apofasia, meglio. Sotto la sua luce la realtà soccombe e trasfigura: al centro non c’è più l’oggetto illuminato ma lo splendore solare. Questo per dire che la missione non sta nel disvelare l’autentico, nella libertà di essere come si è o come si vuole. L’abbiamo già percorsa questa traiettoria e che cosa ne abbiamo cavato? L’ossificazione del tutto. E’ tempo di fare appello ad Aldebaran, affinché col suo sorriso ci occulti la fulgida evidenza del nulla.