sabato 25 febbraio 2012

Emma, Erica, Dolcenera. Il futuro della politica visto da Sanremo (e dalla Puglia)

da La Gazzetta del Mezzogiorno, 25/02/2012

Non c’è verso: la destra continua ad essere un passo in avanti rispetto alla sinistra. E, soprattutto, a porsi al diapason con le corde più profonde del popolo. Non parliamo di rappresentanze politiche (sempre più incartate e lente) ma di quel germinaio antropologico e sottoculturale che costituisce l’humus indispensabile di ogni successiva egemonia. L’Italia di Colpo Grosso marca il passo. La comunità orgiastica, dissipativa, grigliata alla lampada abbronzante che il Cavaliere ha magistralmente incarnato sembra volare via insieme alla farfallina di Belen, la cui insopprimibile intelligenza pesa come un macigno sulla sua credibilità di soubrette smutandata.

Come spesso accade, è Sanremo il palcoscenico del passaggio d’epoca e sono le voci di Puglia a fare da cartina di tornasole della mutazione. La voce di Emma, innanzi tutto.
Frutto del ventre mistico di Maria (intesa come De Filippi), puledro di razza della scuderia Mediaset, figlia dell’orgia, insomma, Emma Marrone volta le spalle allo sbraco del ventennio berlusconiano e si mette a urlare la durezza del reale, anelando in lacrime “un poco di mangiare”, come a riannodare il filo con i lamenti di un Matteo Salvatore. C’è qualcosa di più di una furbesca cavalcata sull’onda della crisi. Emma detta la linea: stare dentro la ferita della disperazione esistenziale, entrare in empatia con i dannati della precarietà, ribadendo però (e sta qui il trucco) la fedeltà all’assetto valoriale fondativo della destra: Dio, Patria e Famiglia. Di più, attestandone la “naturalità” (“la natura di diventare padre”). Dopo la parentesi tecnica, sarà questo il leitmotiv che consentirà alla destra di catalizzare lo spirito del tempo, di raccogliere il disagio generato dal capitalismo tecno-finanziario e, al contempo, di anestetizzarne il potenziale conflittuale e trasformativo.

Come risponde la sinistra ai tumulti dei tempi? Con Erica Mou. La cantautrice biscegliese si è auto-rappresentata orgogliosamente sul palco dell’Ariston come frutto genuino della Puglia migliore, quella che investe in creatività. La sua canzone è il paradigma del vitalismo tardo-piccolo-borghese. L’ansia di mordere la vita, di godere della beatitudine che la vita in sé, nella sua immanente auto-sufficienza può regalare, stando sempre nell’attimo e disoccupandosi di tutto il resto. Un inno alla libertà individuale. Ci mostra, la Mou, che la “buona politica” è attardata nella competizione con il vecchio stile di vita berlusconiano. Al godimento cafone e mercenario, essa oppone un’idea di benessere gentile, consapevole, ecocompatibile, sganciato da qualsiasi performatività sociale (“voglio diventare vecchia … con le rughe tatuate”). Il popolo? Non pervenuto. Il disagio sociale? Chi l’ha visto? La vena trasformativa della sinistra si scarica completamente nello spazio liscio dei respiri libertari. E’ lì che essa esercita il suo stantio anticonformismo: si pensi pure all’altro pugliese Carone (con Dalla a mo’ di pistone), il quale canta, in un malriuscito tentativo d’imitazione di Faber, lo scandalo del cliente che si innamora della prostituta. Il destro le prostitute le compra, il sinistro se ne innamora. Quanto è umano!

Ma tra la Puglia peggiore di Emma e la Puglia migliore di Erica, ad accendere un lumicino di speranza interviene la Puglia-Puglia di Dolcenera. Una prova ambiziosa, la sua. Qui la critica al presente non passa dal semplice lamento per il morso della crisi, ma da una rimessa in discussione dell’intero “paradigma delle libertà”, su cui ha prosperato l’egemonia berlusconiana. Dolcenera afferma chiaro e tondo che il mondo liquido, sfavillante di mille opportunità, “non fa respirare”; che alle “cattedrali” del consumo è preferibile un monolocale in cui coltivare la solidità dell’amore (“qualunque cosa accada”). Sta in questo solco la rivoluzione di sistema, il cambio di paradigma. Che prende due piccioni con una fava: la crisi e il modello di società di cui essa è figlia. La sinistra potrebbe essere l’interprete di questa stagione. Molti dei suoi intellettuali vanno dicendo da anni le cose che canta Dolcenera, ma la politica è ancora attardata nell’impresa di espansione delle libertà molecolari, che di quel sistema entrato in crisi sono il primo alimento. Dolcenera ci indica la strada: la ricerca di una trascendenza che parta dalle falle del vitalismo immanente può essere l’alternativa vera al “Dio, Patria e Famiglia”. Peccato che i politici che non guardino Sanremo.



martedì 31 gennaio 2012

Perché il PD non espelle Emiliano?

Articolo 2, comma 9, dello Statuto del Partito Democratico: “sono escluse dalla registrazione nell’Anagrafe degli iscritti e nell’Albo degli elettori del PD le persone appartenenti ad altri movimenti politici o iscritte ad altri partiti politici […]”.
 Ci chiediamo come mai a Michele Emiliano non si applichino le regole del partito. Egli non ha semplicemente aderito ad un altro movimento politico ma lo ha persino fondato e griffato col suo nome. Il segretario Blasi sostiene che, sì, forse un problema di violazione dello Statuto ci sarebbe, ma solo nel caso in cui il Sindaco desse davvero seguito all’intenzione di costituire una lista nazionale. Ma questo criterio spaziale è una pura invenzione, di cui non v’è traccia alcuna nello Statuto. Chi sostiene un altro movimento che, indipendentemente dalla sua rilevanza territoriale, compete elettoralmente col PD è fuori dal partito. Punto e basta. Di più, l’opinione di Blasi, di Bersani e di tutti gli organismi dirigenti è, sul punto, del tutto irrilevante. Solo la Commissione di Garanzia territorialmente competente “in tali condizioni, dopo una breve verifica, comprensiva, nel caso, dell’audizione dell’interessato/a, provvede alla cancellazione dall’Anagrafe degli iscritti o dall’Albo degli elettori entro il termine di 15 giorni”. E ancora: “Nelle more del procedimento, per casi di particolare rilevanza, la Commissione può adottare un provvedimento di sospensione cautelare dall’attività di partito con efficacia immediata” (art. 11, comma 1, del Regolamento per le Commissioni di Garanzia del PD).
Dal momento che la cosa riguarda il Presidente regionale del partito, non v’è dubbio che si tratti di un caso di “particolare rilevanza”. E’ possibile che i membri della locale Commissione di Garanzia non siano venuti a conoscenza del fatto? E’ possibile che nessun iscritto al PD pretenda l’applicazione delle regole che il collettivo si è dato?

 Il nostro non è mero accanimento notarile. La questione ha uno straordinario valore simbolico. Se Emiliano la passa liscia anche stavolta significa che alla personalità carismatica viene data licenza di alterare le regole democratiche, di porsi al di sopra della legge. L’autorevolezza del partito, già appannata di suo, ne uscirebbe irrimediabilmente compromessa. Tutti i partiti, intesi soprattutto come organizzazioni collettive, sono oggi sotto ricatto. Ci si persuade unanimemente che senza personalità carismatiche, come quelle di Emiliano o Vendola, si è elettoralmente spacciati. Per questo si indulge ad ogni capriccio della star di turno. Ora, noi sappiamo benissimo che ciò che è “giusto” non sempre corrisponde a ciò che è “opportuno”. Se l’obiettivo è vincere le elezioni, si può anche soprassedere sul rispetto delle regole interne. Non ci scandalizziamo certo per questo. Tutti continuano a ripetere che, nonostante le ricorrenti intemperanze, Emiliano è una risorsa insostituibile per il centro-sinistra e ha governato bene la città. E’ forse giunto il momento di cominciare a mettere in discussione simili assunti.
Le personalità carismatiche possono essere utili in determinate contingenze, ma se poi queste rifiutano di innestarsi dentro un percorso collettivo e democratico, il rischio è che diventino dannose, anche sotto un profilo cinicamente elettorale. Tutti dimenticano che sia Emiliano sia Vendola, in occasione delle loro rispettive riconferme, hanno perso valanghe di voti, pur competendo entrambi con personaggi collocati al grado zero del carisma (Di Cagno Abbrescia e Palese). Le divisioni nel campo avverso sono state ben più decisive dei loro meriti.
Questo è avvenuto principalmente perché entrambi, invece di mettere a valore le loro capacità di leadership al fine di saldare alleanze con le categorie sociali e per costruire soggetti collettivi forti e organizzati, hanno fatto di tutto per sfasciare anche quelli già esistenti. Sull’argomento del “buon governo”, poi, vi sarebbe da discutere e tanto. Ma non è certo questa la sede. Il punto vero è che la situazione di profonda crisi strutturale in cui versa il Mezzogiorno rende obsoleto il modello politico incarnato, ormai già da vent’anni, dai nuovi sindaci.

Non abbiamo più bisogno di mettere a lucido le città, ma di ricostruire l’assetto economico-sociale complessivo. Per questo compito, non servono più né gli uomini soli al comando, né la cittadinanza liquida. Occorrono visioni lunghe e organizzazioni politiche solide. Insomma, è l’ora di uscire davvero dal berlusconismo.

lunedì 28 novembre 2011

La politica culturale e l’umiltà del bene

Ne L’umiltà del male, Franco Cassano denuncia l’aristocratismo etico dei migliori, capaci di coltivare un’idea alta ed esigente di bene, ma al tempo stesso sempre più disinteressati alla sorte della maggioranza degli uomini, ceduti alle grinfie dei peggiori. L’imputata latente è la sinistra, che ha rinunciato da tempo a far diventare “senso comune” la propria idea di bene, rinchiudendosi nella contemplazione di una presunta superiorità morale.

Ci chiediamo se non sia il caso di ribaltare la tesi. Più che da un complesso di superiorità, la sinistra sembra affetta da un eccesso di umiltà. Dall’umiltà del bene, potremmo azzardare. Nei giorni scorsi, Bari Partecipa ha promosso un’iniziativa che ha fatto luce non soltanto sulle “politiche culturali” a Bari e in Puglia, ma soprattutto sulle “culture politiche” della sinistra odierna. Secondo l’assessora al ramo della Regione Puglia, Silvia Godelli, le istituzioni non devono promuovere una determinata politica culturale; devono invece limitarsi a creare le condizioni affinché tutti gli operatori possano esprimersi. Per questo, ella ha gestito le risorse secondo la logica imparziale dell’amministrazione di condominio, con manageriale neutralità. (Se così è, non si capisce perché mai, per espletare questa funzione, debbano essere convocate delle democratiche elezioni, perché gli amministratori debbano essere espressione di governi sostenuti da “partiti” politici, perché non si debba, invece, in ossequio a questo principio, nominare per ciascun settore un tecnico i cui requisiti di competenza siano stabiliti ex ante da un regolamento e magari, laddove possibile, sostituire il tecnico con un calcolatore elettronico per essere certi della sua imparzialità).

Quanto affermato dalla Godelli ha una doppia implicazione: 1) la politica culturale non ha come destinatario privilegiato il popolo (se non in maniera indiretta), ma gli operatori culturali; 2) promuovere una determinata idea di bene è ormai considerato (a sinistra) un abuso, una forma illegittima d’imposizione di un singolo punto di vista alla generalità. Talmente umili da farsi fuori, insomma. Non si tratta solo di una banale assunzione di alcune dosi di liberalismo, ma di una rinuncia alle ragioni stesse dell’esistenza di una sinistra. Essa, infatti, nasce intorno all’idea del cambiamento dello stato di cose presenti. Per fare questo occorre come minimo avere un’idea di “bene” verso cui tendere e poi intraprendere una lotta per l’affermazione di questa idea a scapito dell’esistente. Se invece l’obiettivo è semplicemente lasciare che ciò che esiste si esprima pienamente, se le singolarità presenti vengono considerate perfette così come sono, allora l’idea stessa di sinistra non ha più alcun senso. E’ un abuso lottare per la promozione di una propria idea di bene? Ergersi a maestri? Tanto vale ritirarsi a vita privata.
Ovviamente, le “forze del male” (per restare nella logica cassaniana) non restano certo a guardare. Esse non rinunciano affatto a fare egemonia, soprattutto se il campo viene lasciato sgombro. La loro umiltà è d’altro tipo: conoscono le debolezze degli uomini e vi indulgono per accaparrarsene il favore. Mai per intraprendere percorsi collettivi di emancipazione.

Questo, per carità, non impedisce di riconoscere che l’impostazione della Godelli abbia sortito nel nostro contesto effetti lusinghieri. Essa, poi, ha il pregio della chiarezza: ciascuno può valutare la corrispondenza tra l’intento e gli esiti. Quello che forse più preoccupa è la reazione interna alla sinistra stessa che una simile impostazione finisce per generare. Una reazione della quale ha dato buon saggio Michele Emiliano, nella stessa occasione. Una volta “neutralizzata” la cultura (e il nostro Sindaco è andato in questo senso ben oltre la Godelli, giungendo persino a cancellare il relativo assessorato e rendendone dunque opaca la gestione), essa rinasce immancabilmente per via “putiniana”. Diventa cioè un giocattolo ad uso della grandeur del potente di turno. La differenza è che quella di Putin è una grandeur fondata (sul gas e sull’economia criminale), mentre quella che Emiliano ha illustrato (l’apertura in città di una costellazione infinita e a sfruttamento intensivo di spazi per la cultura ora serrati, dal Piccinni al Kursaal, passando per la Rossani ecc.) ha fondamenta di realtà a dir poco traballanti, dal momento che non ci sono nemmeno i soldi per la prima al Petruzzelli. E qui non c’è più traccia di bene, né presuntuoso né umile. Qui la sinistra fa propria, semplicemente, la buona vecchia “umiltà del Male”.

giovedì 13 ottobre 2011

Necrologio per Steve Jobs

Speriamo che Steve Jobs si sia portato nella tomba anche il suo motto d’ordine: “stay hungry, stay foolish”. Esso non è che la versione incantata, ad usum babbioni, del dispositivo a doppio scatto che ha governato il neoliberismo: ossia, precarizzazione mobilitante e somministrazione dello sbraco. Ne è più precisamente la versione ideologica, nella misura in cui occulta la sostanza di dominio in esso inscritto, proponendone un’inquadratura in soggettiva, facendolo passare, vale a dire, per una disposizione personale e non per un imperativo sistemico politicamente instillato, quale esso è.

Sotto questo profilo, il conservatore Ronald Reagan è di gran lunga preferibile al progressista Steve Jobs. L’ex presidente cowboy, per lo meno, sapeva dire pane al pane e riassumeva il senso della sua politica con il celebre: “starve the beast!” (affama la bestia). Affinché i suoi concittadini si rimettessero mogi mogi al servizio del Capitale, occorreva ridurli alla fame, farne degli straccioni pronti ad obbedire a chiunque agitasse loro davanti un pezzo di pane. E quindi via con l’abbattimento dei diritti, delle tutele, di ogni forma di preservazione di una vita dignitosa. Si sbaglia chi pensa che la precarietà sia un effetto perverso, non voluto, della ristrutturazione post-fordista: essa è frutto di una politica deliberata, una politica, appunto, di precarizzazione mobilitante.
Dire “stay hungry”, in questo contesto, è come gridare al naufrago, dal ponte del proprio yacht, “dài, fatti una bella nuotata”. E’ il cachinno beffardo dell’aguzzino.

Ma la precarizzazione, da sola, non basta. Per poter sopportare la sua condizione di bestia affamata, il soggetto deve uscir fuori di testa, deve sbroccare, abbandonare la coscienza di sé e del mondo. Per questo gli si apparecchia attorno un florilegio di piste da sballo. E ce n’è per tutti i gusti. Dallo sbraco sessuale all’integrismo religioso. Dalla festa televisiva agli “incanti della rete” (cfr. Formenti). L’importante è stare sempre estroflessi, fuori di sé(nno), a far spreco di sé. Dépense privata, la chiamava Bataille. Perciò, come dice il guru, stay foolish. “Statti pazzo, dovessi accorgerti di qualcosa …”.

Ma la sorprendente sollevazione popolare contro il manifesto funebre di Sel Roma in onore di Jobs fa ben sperare. Fino a qualche mese fa, nessuno ci avrebbe fatto caso. “Stay hungry, stay foolish” era, nei fatti, la stella polare di una certa, nuova sinistra. La narrazione evidentemente non tira più. Quel mondo incantato cui si alludeva sta franando miseramente e i suoi cantori cercano disperatamente di salvarsi esibendosi in repentine quanto patetiche retromarce, nonché mandando al macero, come sempre fa il Potere, delle presunte mele marce. Adius, Jobs!

martedì 9 agosto 2011

Nuovismi di ritorno. Il Pci e i suoi figli

Quel che detestavo nel vecchio Pci era l’appuntamento con l’emissario della Federazione. Puntuale, su ogni questione all’ordine del giorno veniva a dettare la linea ai militanti di provincia. Chiunque fosse, era una spanna sopra i locali, quanto a dialettica, doti oratorie, capacità di persuasione. Perciò non c’era verso: la linea dettata risultava sempre quella giusta, lapalissianamente, da qualsiasi lato la si osservasse. Argomenti arcigni, piantati nel cemento, incrollabili. Ascoltandolo, uno ci provava col pensiero a fargli le pulci, a ricercare delle alternative possibili o quanto meno delle controindicazioni, delle piccole imperfezioni. Ma dopo poco, incredibilmente, ciascuno di quei pensieri, prima di essere esposti dagli astanti, diventavano uno ad uno oggetto di sbeffeggio da parte dell’ospite, smascherati nella loro inconsistenza e infine denunciati come “oggettivamente” confacenti al gioco degli avversari. Ebbene sì, i funzionari del Pci sapevano leggere nel pensiero. E a noi non restava che vergognarci per aver semplicemente osato pensare di svicolare dalla “linea”.
Quel che trovavo ancor più insopportabile era la facilità con la quale la settimana successiva quello stesso funzionario – o chi per lui – sbarcava nuovamente in periferia per dettarci una linea che andava nella direzione esattamente opposta a quella della settimana precedente. “L’occupazione viene prima della tutela ambientale!”. E qualche giorno dopo: “non si possono scarificare gli equilibri ecologici in nome dello sviluppo!”. Ma non c’erano santi. Gli argomenti per la piroetta apparivano inappuntabili. Di più. Egli era in grado di dimostrarci che tra la linea della settimana precedente e quella della settimana successiva non c’era alcuna contraddizione. E se uno non capiva l’assoluta coerenza tra le due posizioni era chiaramente un cretino.

Inseguire “il nuovo” costituiva una specie di ossessione. E questo generava acrobazie politiche risibili, posizionamenti improbabili. Il Pci era davvero postmoderno. Ma veniva puntualmente scavalcato e travolto dai nuovisti veri, ritrovandosi sempre un passo dietro gli altri, sempre all’inseguimento, armato di argomenti granitici ma privo di convinzione.
Per questo, riesco a comprendere profondamente Vendola. Non passa giorno senza che egli non scagli una picconata contro la comunità politica che lo ha allevato. L’impressione però è che il Governatore finisca sempre per affrancarsi dal meglio di quella tradizione (vedi la sostituzione del “compagno” con “l’amico”) mentre il peggio, inconfessabilmente, continua a roderlo dentro, a determinarlo, come una mano nel buratto.
Il nuovismo acrobatico del Pci (in nome di un “pragma” mai definito nella sua sostanza) lo si rivede oggi nella disinvoltura con cui Vendola e i suoi attraversano le questioni dell’acqua, della sanità e, in ultimo, dell’istruzione.
Lo confesso. Io la questione del referendum sull’acqua non l’ho proprio capita. Non ho capito perché mai delle forze politiche di sinistra (PD in testa) che hanno ampiamente incluso nel proprio spettro ideologico le virtù del mercato (quantunque ben regolato) si sono totalmente appiattite sull’idea che l’intervento dei privati nella gestione e negli investimenti in materia di acqua fosse una specie di eresia. Se il bene acqua resta pubblico, dov’è il problema? Posso trovarlo inammissibile io. Ma io sono comunista. Loro che non lo sono, perché così perentoriamente predicano che l’acqua non solo debba restare in mani pubbliche ma debba essere anche assolutamente, necessariamente, senza alcun dubbio “gestita” dal pubblico?
A distanza di qualche settimana dall’evento referendario, bollato come miracoloso, lo stesso Vendola mi vuole convincere che far posto all’eccellenza portata in dote dai gestori privati (Don Verzé, nella fattispecie) è una necessità assoluta per la sanità pubblica. Che chi si spaventa per questa eventualità è un deficiente. Sempre lui. Sempre Vendola. E sempre – questo è il vero capolavoro – in nome del pubblico contro il privato. Come ha argomentato magistralmente l’assessore Pelillo, infatti, “la sanità privata si è allarmata … coltiva il timore di vedere decurtati i propri ricavi”. Qui siamo oltre l’ideologia del mercato. Il pubblico – secondo i nostri – non deve fare spazio al mercato, bensì adoperarsi attivamente per rafforzare un monopolio privato a scapito di tutti gli altri operatori (sic!). Solo Craxi era stato capace di portare avanti una simile logica: la applicò al settore delle telecomunicazioni e il privato eccellente, in quel caso, si chiamava Silvio Berlusconi. Oggi poi scopriamo che al Comune di Bari tutti i fondi già assegnati dal piano di zona al rafforzamento degli asili nido comunali saranno trasformati in voucher per accedere ai nidi privati. Poiché, come afferma l’assessore “sellino” autore dello storno, questo “è il modo più immediato per aumentare il numero dei bambini ospitati”.

Chi non lo capisce è contro il nuovo, contro il pragma. Il nuovo può avere oggi la faccia dell’efficienza privata, domani quella dei movimenti invasati per il “tutto pubblico”. Bisogna saper andare di slalom. Bisogna essere postmoderni. Postmoderni come il vecchio Pci. Insopportabile Pci. Insopportabile Vendola.


giovedì 21 luglio 2011

Giovani, donne e movimenti schiacciati tra leaderismo e partecipazionismo

Giovani, donne e movimenti di cittadinanza attiva vengono blanditi quotidianamente e da ogni parte. Soggetti deboli, senza potere e, al contempo, risorse preziose di creatività, di pratiche virtuose, di innovazione della politica e della società, da sempre poco valorizzati nel nostro ingrato paese. Tutti concordano sul fatto che debbano “contare di più”, che debbano accedere ai posti di comando o, al peggio, ricevere maggiore ascolto da parte della politica. I governi nati dalla primavera pugliese, in particolare, si piccano di essere all’avanguardia nella loro valorizzazione, ma ogni volta che questi soggetti reclamano spazio i nodi veri giungono al pettine e i leader della primavera sbottano, perdono la pazienza, lasciando intendere che il deficit di riconoscimento è imputabile esclusivamente a loro (ai soggetti deboli). Emiliano è, comme d’habitude, molto più sfacciato nei rimproveri: qualche settimana fa ha bacchettato i superstiti dell’Emilab a loro dire traditi dal Sindaco che non avrebbe mantenuto le sue promesse pro-giovani e più di recente ha preso di mira le donne che pretendevano, sulla scia della condanna inflitta ad Alemanno, una più adeguata rappresentanza in giunta. A entrambi ha detto, traducendo in soldoni: ‘ciò che conta sono i voti. Se voi non li avete perché dovrei commettere l’abuso di rappresentarvi a scrocco della sovranità popolare. Non sarebbe democratico. Se volete essere rappresentati, andate a guadagnarvi i voti. La competizione è aperta’.

Lo stile di Vendola è differente. Lui, l’abuso, in nome delle donne, dei giovani, dei movimenti, lo commette volentieri, rappresentando loro oltre il dovuto al governo e al sottogoverno, nonché nei tavoli di concertazione politica e legislativa. A fin di bene, s’intende, e sacrificando all’occorrenza coloro che i voti se li sono conquistati per davvero. Ma anche il Governatore, quando si giunge al sodo, sbotta. Si veda il caso della ripubblicizzazione dell’Acquedotto Pugliese. Ai movimenti coinvolti nel tavolo tecnico per l’elaborazione della legge non sono andati giù alcuni fondamentali emendamenti dell’ultim’ora. Talché, Nichi Vendola ha preso carta e penna per spiegare agli infanti della società civile che governare è cosa complessa, che la loro “etica della convinzione” è insufficiente, che essi hanno una visione semplificata dalla realtà a cui lui deve porre rimedio con una superiore “etica della responsabilità”. Insomma, è esclusivamente lui – che ha i voti – a decidere in ultima istanza se e fino a che punto la voce dei movimenti può essere ascoltata. Sempre in nome dell’interesse generale, s’intende.

La questione di fondo che emerge resta sempre quella dell’egemonia (e se viene lasciata inevasa, l’argomento di Emiliano appare ineccepibile). Come far penetrare le illuminate istanze di questi soggetti nel corpo sociale? Come fare in modo che esse diventino sensibilità comune e si trasformino quindi anche in voti?

Rispetto a questo obiettivo, entrambe le strategie, quella del Sindaco e quella del Governatore, sono evidentemente fuori bersaglio. La mossa vendoliana rimane ad un livello puramente orbitale. Resta intrappolata nella logica dell’octroi di un sovrano illuminato, che d’imperio sceglie di tingere di rosa la sua squadra di governo, di tingere di verde (cioè di riempire di giovani) il sottogoverno e di prestare orecchio di tanto in tanto ai movimenti. Il piano simbolico è sempre importante ma evidentemente non penetra se, in Consiglio Regionale (cioè laddove si esprime la sovranità popolare), donne, giovani e movimenti restano al palo.

Se Vendola si disoccupa di scendere tra i mortali, Emiliano dal canto suo fa finta che là fuori, nel mondo reale, i poteri non esistano e che ci sia invece un’arena neutra, uno spazio liscio nel quale ciascuno compete da pari a pari e il più convincente, il più bravo, il più talentuoso vince. Egli immagina che gli elettori votino ispirati dall’interesse generale, scegliendo i soggetti più idonei a rappresentarlo. Per cui, se giovani, donne e movimenti non hanno i voti è solo colpa loro. Significa che non sono bravi abbastanza. Due forme differenti ma speculari di rimozione della realtà. E agire nella realtà come se si fosse in una favola è sempre la maniera migliore per farsi fottere dai peggiori.

Il sindaco di Bari ha rilanciato il concetto qualche giorno fa proponendo nientemeno di abolire i partiti e la stampa (costano troppo alle casse pubbliche!), per sostituirli con l’accesso ad internet per tutti. Ebbene, eliminare il finanziamento pubblico ai presidi della democrazia equivale a regalare tutto il potere ai potentati economici e/o criminali (soprattutto questi ultimi, alle nostre latitudini), ai quali non mancano certo i mezzi per far valere la propria influenza. In quello spazio liscio vagheggiato da Emiliano, hanno la meglio solo i De Gennaro, i Matarrese, i Berlusconi, per non dire gli Strisciuglio ecc.

L’unica salvezza per i deboli è sempre e solo la politica. Se si rimuove la questione della forza, i forti prendono il sopravvento. Solo aggregandosi e organizzandosi per la difesa delle proprie istanze i deboli diventano forti, non certo liquefacendosi nell’arena indifferenziata della cittadinanza, dove siamo tutti piccole e insignificanti molecole. E’ attraverso l’organizzazione che i deboli possono penetrare nella società e promuovere le loro buone ragioni. Ed è attraverso la legittimazione guadagnata nella società che i deboli possono conquistare le istituzioni per realizzare le politiche a difesa dei deboli. Paradossalmente, sia Emiliano sia Vendola procedono oggi in direzione contraria al rafforzamento di organizzazioni politiche che sappiano stare solidamente nella società e nelle istituzioni. Le picconano con almeno una dichiarazione al giorno. Che sia la strada del leader salvifico o quella del partecipazionismo indifferenziato e virtuale, in cui i cittadini rimangono permanentemente al livello delle grassroots, il risultato è sempre lo stesso: i poteri forti (economici e criminali) continuano a dominare la società. Solo questi, in fin dei conti, possono permettersi il lusso di collocare soggetti appartenenti a categorie deboli dentro le istituzioni (che è la massima forma di ostentazione del potere). E, infatti, l’unica “giovane donna” in giunta a Bari si chiama Annabella De Gennaro. Che sarà certamente bravissima e titolata, sì, ma come migliaia di giovani donne baresi. E’ così che i forti si fanno beffe delle battaglie dei deboli.



martedì 5 luglio 2011

Come imbrigliare nella rete la libertà di stampa: la ricetta di Emiliano

Scagliarini, della Gazzetta del Mezzogiorno, ha dato notizia dell’assunzione da parte del Comune di Bari di un dietista ultrasessantenne pensionato, osando mettere in rilievo, al proposito, che il Sindaco, giusto qualche mese prima, aveva gridato allo scandalo contro l’Università di Bari per la messa a contratto di un altro “vecchio”, ultrasettantenne pensionato. Le ragioni che il Comune ha addotto a difesa della scelta sono tutto sommato valide. Ma sono esattamente le stesse ragioni che potrebbero valere mutatis mutandis per l’Università. Il giornalista, insomma, ha fatto nient’altro che il suo mestiere, smascherando il carattere strumentale di certe uscite. Per questo Emiliano, via Facebook, lo ha insultato (“perfido”, “scrive sciocchezze… assurde malignità”) e diffamato (“incaricato chissà da chi di perseguitare il sindaco di Bari”, “professionalmente scorretto”).

Ora, al di là del merito della vicenda, è interessante riflettere sull’argomento di carattere generale che il Sindaco ha adoperato contro la carta stampata. Ossia, quella che potremmo definire la via nuovista alla censura.
“I giornalisti della Gazzetta – ha digitato Emiliano, sempre su Facebook - pretendono di scrivere quello che gli pare senza avere repliche dello stesso tenore… Non sono abituati alla democrazia interattiva del web 2.0… Sono fuori dal tempo e dunque é questo il motivo per il quale sempre meno sono i lettori dei giornali”.
Al netto delle palesi falsificazioni (il Comitato di redazione della Gazzetta e l’Ordine dei Giornalisti non hanno certo reagito al “diritto di replica” del Sindaco, ma solo e giustamente agli “insulti” e alle esternazioni diffamatorie nei confronti dell’autore dell’articolo), l’argomento è chiarissimo: l’attività giornalistica, afferma implicitamente Emiliano, è in sostanza illegittima poiché non accetta di dispiegarsi su quel piano orizzontale allestito dalla rete e, in particolare, dai social network, nel quale tutti i parlanti sono “uguali” e le esternazioni di ciascuno sono immediatamente esposte alla discussione collettiva.

Questa tesi contiene diverse insidie. Innanzi tutto, risuona in essa il dogma che i pidiellini utilizzano in Rai come clava contro qualunque operatore dell’informazione che osi dire la verità. Se uno si azzarda a comunicare in Tv che la disoccupazione è aumentata, occorre immediatamente estrarre dal cilindro qualcun altro che sostenga il contrario o che discolpi il Governo sulla vicenda. E’ il principio de “il pluralismo in una sola notizia” (declinabile all’infinito: in un solo programma, in un solo articolo ecc.). In questo modo si ottiene la scomparsa della realtà. Ogni fatto è suscettibile di smentita. Ogni argomento ha il suo contrario. Ossia, l’assoluta reversibilità del senso. Le speculazioni filosofiche postmoderne vengono qui adoperate a fini di speculazione politica. Si fa finta di ignorare che il pluralismo è tale solo se si realizza a livello di sistema e non imponendo al singolo operatore la sostituzione del proprio punto di vista con la messa in scena di tutti i punti di vista possibili. L’articolo di Scagliarini sarà pure malizioso, ma è un punto di vista legittimo, privo di falsità e calunnie. Emiliano vuole forse farci credere di non avere alcun mezzo per far sentire la propria voce in dissenso?
C’è però qualcosa di ancor più insidioso nell’argomentazione del Sindaco. L’idea che il “quarto potere” sia out e debba essere ridotto allo stato di melassa feisbukiana. Lungi da me il proposito di difendere la stampa odierna, che come tutti i poteri è luogo di somma ambivalenza. Ma senza quel potere, i punti di vista à la Scagliarini, ossia ogni tentativo di mettere sotto controllo le azioni dei potenti, scomparirebbe nella marmellata quotidiana del web. Si guardi al florilegio di commenti che seguono ad ogni post di un politico su Facebook (da Emiliano a Vendola). E’ un’esplosione informe di schegge di pensiero che finiscono per seppellire qualsiasi contenuto di senso, anche il più saggio e degno di riflessione. Tutto si equivale perfettamente: delirio e rancore, apprezzamenti e critiche, apologia e saggezza.

Il guaio ulteriore è che questa orizzontalità è del tutto illusoria. Emiliano fa finta di non sapere che lui è il Sindaco di Bari. E il fatto che egli usi Facebook non azzera per niente il differenziale di potere che lo separa dai suoi concittadini-fan (anzi, lo incrementa e lo alimenta quotidianamente). Egli vorrebbe che anche Scagliarini scendesse dal piedistallo della Gazzetta: nei confronti del giornalista di turno Emiliano intende ripristinare la stessa distanza incolmabile di potere che lo separa dai suoi fan, per sotterrarne gli scritti sotto le macerie prodotte dalla massa. Più precisamente, egli desidera trasformare un “potere” in una “libertà personale”: la maniera più democratica e politicamente corretta per anestetizzare una forza avversa.

Gli aspiranti caudillo della post-modernità sanno bene che la censura non funziona più (del resto, non avrebbero i mezzi istituzionali per esercitarla). La forma più efficace di esercizio della repressione consiste oggi paradossalmente nel favorire lo scatenamento libertario (i capitalisti l’hanno capito con largo anticipo). Di fronte a questo, i tradizionali presidi vengono disegnati come ostacoli fuori tempo. I giornali perdono lettori? Tanto vale abolire la libertà di stampa. I partiti sono in crisi? Tanto vale abolire la democrazia. Nessuna repressione, ovviamente. Basta disseminare l’illusione che, una volta azzerate queste entità, i cittadini potranno esercitare direttamente, senza mediazioni, la libertà di espressione e il governo della cosa pubblica. In realtà, l’unica cosa che viene azzerata è proprio la sovranità dei cittadini.