Non c’è verso: la destra continua ad essere un passo in avanti rispetto alla sinistra. E, soprattutto, a porsi al diapason con le corde più profonde del popolo. Non parliamo di rappresentanze politiche (sempre più incartate e lente) ma di quel germinaio antropologico e sottoculturale che costituisce l’humus indispensabile di ogni successiva egemonia. L’Italia di Colpo Grosso marca il passo. La comunità orgiastica, dissipativa, grigliata alla lampada abbronzante che il Cavaliere ha magistralmente incarnato sembra volare via insieme alla farfallina di Belen, la cui insopprimibile intelligenza pesa come un macigno sulla sua credibilità di soubrette smutandata.
Come spesso accade, è Sanremo il palcoscenico del passaggio d’epoca e sono le voci di Puglia a fare da cartina di tornasole della mutazione. La voce di Emma, innanzi tutto.
Frutto del ventre mistico di Maria (intesa come De Filippi), puledro di razza della scuderia Mediaset, figlia dell’orgia, insomma, Emma Marrone volta le spalle allo sbraco del ventennio berlusconiano e si mette a urlare la durezza del reale, anelando in lacrime “un poco di mangiare”, come a riannodare il filo con i lamenti di un Matteo Salvatore. C’è qualcosa di più di una furbesca cavalcata sull’onda della crisi. Emma detta la linea: stare dentro la ferita della disperazione esistenziale, entrare in empatia con i dannati della precarietà, ribadendo però (e sta qui il trucco) la fedeltà all’assetto valoriale fondativo della destra: Dio, Patria e Famiglia. Di più, attestandone la “naturalità” (“la natura di diventare padre”). Dopo la parentesi tecnica, sarà questo il leitmotiv che consentirà alla destra di catalizzare lo spirito del tempo, di raccogliere il disagio generato dal capitalismo tecno-finanziario e, al contempo, di anestetizzarne il potenziale conflittuale e trasformativo.
Come risponde la sinistra ai tumulti dei tempi? Con Erica Mou. La cantautrice biscegliese si è auto-rappresentata orgogliosamente sul palco dell’Ariston come frutto genuino della Puglia migliore, quella che investe in creatività. La sua canzone è il paradigma del vitalismo tardo-piccolo-borghese. L’ansia di mordere la vita, di godere della beatitudine che la vita in sé, nella sua immanente auto-sufficienza può regalare, stando sempre nell’attimo e disoccupandosi di tutto il resto. Un inno alla libertà individuale. Ci mostra, la Mou, che la “buona politica” è attardata nella competizione con il vecchio stile di vita berlusconiano. Al godimento cafone e mercenario, essa oppone un’idea di benessere gentile, consapevole, ecocompatibile, sganciato da qualsiasi performatività sociale (“voglio diventare vecchia … con le rughe tatuate”). Il popolo? Non pervenuto. Il disagio sociale? Chi l’ha visto? La vena trasformativa della sinistra si scarica completamente nello spazio liscio dei respiri libertari. E’ lì che essa esercita il suo stantio anticonformismo: si pensi pure all’altro pugliese Carone (con Dalla a mo’ di pistone), il quale canta, in un malriuscito tentativo d’imitazione di Faber, lo scandalo del cliente che si innamora della prostituta. Il destro le prostitute le compra, il sinistro se ne innamora. Quanto è umano!
Ma tra la Puglia peggiore di Emma e la Puglia migliore di Erica, ad accendere un lumicino di speranza interviene la Puglia-Puglia di Dolcenera. Una prova ambiziosa, la sua. Qui la critica al presente non passa dal semplice lamento per il morso della crisi, ma da una rimessa in discussione dell’intero “paradigma delle libertà”, su cui ha prosperato l’egemonia berlusconiana. Dolcenera afferma chiaro e tondo che il mondo liquido, sfavillante di mille opportunità, “non fa respirare”; che alle “cattedrali” del consumo è preferibile un monolocale in cui coltivare la solidità dell’amore (“qualunque cosa accada”). Sta in questo solco la rivoluzione di sistema, il cambio di paradigma. Che prende due piccioni con una fava: la crisi e il modello di società di cui essa è figlia. La sinistra potrebbe essere l’interprete di questa stagione. Molti dei suoi intellettuali vanno dicendo da anni le cose che canta Dolcenera, ma la politica è ancora attardata nell’impresa di espansione delle libertà molecolari, che di quel sistema entrato in crisi sono il primo alimento. Dolcenera ci indica la strada: la ricerca di una trascendenza che parta dalle falle del vitalismo immanente può essere l’alternativa vera al “Dio, Patria e Famiglia”. Peccato che i politici che non guardino Sanremo.